Hannah Arendt: la politica come spazio della pluralità umana

Nata ad Hannover il 14 ottobre di 118 anni fa, Hannah Arendt, cresce a Königsberg in una famiglia ebraica progressista: i riferimenti del padre Paul e della madre Martha sono il socialismo di Bernstein le idee di Rosa Luxemburg. Allieva di E. Husserl, K. Jaspers e M. Heidegger nel 1940 riesce a scappare dal campo di concentramento di Gurs e a ricongiungersi miracolosamente con il marito per scappare negli Stati Uniti dove comincia e sviluppa la sua attività accademica, professionale e di pensatrice.

Voce fuori dal coro, cittadina americana non assimilata, orfana di padre, esule senza patria dal 1933 al 1951, invisa alla quasi totalità della comunità ebraica per le sue posizioni critiche nei confronti dello Stato di Israele, controversa figura di punta della vita intellettuale americana, Hannah Arendt è stata “una paria cosciente in rapporto col reale” (André Enegrén).

Legata indissolubilmente alla sua lingua madre e alla cultura e alla filosofia tedesche, Arendt si è assunta la responsabilità della propria appartenenza al popolo ebraico e a partire dalla lettura della questione ebraica come fenomeno rivelatore della società moderna e dal confronto con il “male radicale” del nazismo e dello stalinismo, ha sviluppato la sua teoria del dominio totale che racchiude in embrione tutto il suo pensiero.

Nel celebre “La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme” (1963), Hannah Arendt descrive il processo ad Adolf Eichmann, ufficiale nazista tra i maggiori responsabili della Shoah, interrogato dal Tribunale dii Gerusalemme l’11 aprile 1961, neanche un anno dopo la sua cattura a Buenos Aires.

Con 15 imputazioni, per aver commesso crimini “contro il popolo ebraico” – cioè contro gli ebrei con “l’intenzione di distruggere la stirpe” –, “crimini contro l’umanità” e “crimini di guerra” sotto il regime nazista durante la Seconda Guerra Mondiale, da dentro la gabbia di vetro in cui è rinchiuso, Eichmann sconvolge per la sua superficialità, la sua ferrea obbedienza alle regole e per la sua apparente normalità.

Da inviata del “New Yorker”, Arendt notando il comportamento iper-controllato di Eichmann e le sue risposte, suggerisce che il Male è banale. Non volendo ridurre la gravità del male, l’autrice usa questo aggettivo per evidenziare come le persone comuni, ordinarie, prive di spirito critico, che si limitano a eseguire ordini senza riflettere sulle conseguenze delle loro azioni, possono arrivare a compiere crimini terribili.

Il Male, quindi, non viene compiuto necessariamente da individui grotteschi, fanatici o perversi, i cosiddetti “mostri”, ma viene fatto “semplicemente” perché è ciò che viene ordinato. Agiva «con grande velo e cronometrica precisione>> (p. 33), Eichmann <<qualunque cosa faceva, la faceva «come cittadino ligio alla legge, facendo il suo dovere, obbedendo agli ordini>> (p. 142).

Arendt ha ridefinito la nozione di politica opponendosi al concetto dell’uno e dell’uniformità, all’illusoria fusionalità fraterna dell’egualitarismo totalitario e ai modelli gerarchici di pochi individui al potere e ha concepito la politica come uno “spazio pubblico” di azione e libertà, dove la pluralità umana si esprime e dove tuttƏ possiamo manifestare la nostra peculiarità e favorire l’individuazione e le differenze invece di distruggerle.

Il pensiero di Arendt ci invita a confrontarci con le questioni centrali della modernità, come il potere, la rivoluzione, il totalitarismo e la disobbedienza civile. Attraverso il suo lavoro, Arendt ci sfida ancora oggi a «pensare quello che facciamo» e ci invita a riappropriarci del “politico” inteso come «spazio di appartenenza» a una ricca pluralità umana che non va ridotta a un unico corpo ma che va valorizzata attraverso una messa in comune delle diverse unicità e mediante relazioni reciproche e pari partecipazione al potere.

Testo di @protagoniste_il_podcast e @vero_p99