Alfonsina Strada: la leggenda del ciclismo

La chiamavano matta perché andava in bicicletta. Alfonsina Strada: la leggenda del ciclismo.

Nel libro “Alfonsina e la strada” di Simona Baldelli possiamo conoscere la storia della ciclista Alfonsina Strada (1891 – 1959), nata Alfonsa Morini. 

Iniziò a pedalare da bambina prendendo di nascosto la bici del padre e utilizzandola di notte. La famiglia era molto povera e non conosceva l’amore, soprattutto per i bambini e le bambine, considerate ancora meno importanti.

La famiglia, per un tozzo di pane, prendeva in affido infanti e bambini scheletrici dell’orfanotrofio. Dormivano tutti in due lettoni: uno per le femmine e uno per i maschi. I piccoli ospiti spesso morivano a causa degli stenti e delle malattie, quindi non era infrequente svegliarsi e trovare il corpicino senza vita di un piccolo. Questi piccoli ad Alfonsina rimasero sempre nel cuore, fino alla fine dei suoi giorni. 

Sempre di nascosto la giovanissima Alfonsina cominciò a partecipare a qualche competizione e vincere qualche soldo, ma questo non mutò il disprezzo della famiglia nei confronti di una ragazzina considerata (e chiamata) matta soltanto perché utilizzava calzoni e bicicletta. 

A soli 14 anni Alfonsina si trasferì a Milano con un giovane suo estimatore Luigi Strada, liberando così la famiglia Morini da una presenza sgradita. 

A Milano lavorava come sarta, si allenava, partecipava a competizioni facendosi così conoscere e riconoscere. Viaggiò, si esibì a San Pietroburgo presso la corte dello zar e della zarina; nel 1911 batté il record di velocità femminile pedalando a 37,192 km all’ora; tra il 1912 – 1914 fu invitata come “vedette” a Parigi, presso la Villa Lumière, dove imparò ad utilizzare il trampolino, la ruota della morte.

Ma questi risultati non bastavano: Alfonsina voleva dimostrare di valere, desiderava mostrare al mondo che anche le donne sono capaci come gli uomini. Riuscì a farsi iscrivere alla gara maschile del Giro di Lombardia venendo fischiata, insultata, umiliata ma portando a termine la competizione. 

Ma anche questo traguardo non era sufficiente: “doveva fare qualcosa di grande, impensato, oltre qualsiasi immaginazione. Lo doveva a se stessa, al marito folle che la spingeva ad andare avanti, a tutte le creaturine cui era stato sottratto il futuro e conoscevano il mondo soltanto attraverso i racconti di Alfonsina”. (Cfr. p. 171)

Puntava al Giro d’Italia.

Invece la famiglia d’origine nonostante i successi – o forse proprio a causa dei successi – eccezione fatta per la madre, non la rispettò mai. Soprattutto il padre e i fratelli non avevano alcuna considerazione per le donne e lei provava compassione per loro e per tutte le persone “che l’avevano sempre trattata come una pezza da piedi, con quella fissazione di andare oltre il seminato, superare il confine del ruolo di donna, non rassegnarsi a essere solo una costola. Poveretti, per sentirsi superiori a qualcuno, Alfonsina o chiunque facesse di testa sua, avevano bisogno di insultarlo, svalutarlo. Guardandolo dall’alto in basso per sentirsi grandi”. (Cfr. p. 223)

Alla fine Alfonsina, grazie alla partecipazione al Giro d’Italia del 1924, fu consacrata ai posteri e amata da tanti sostenitori.

La narrazione delle tappe del giro dell’autrice Baldelli è emozionante e coinvolgente … tanto da far scendere più di una lacrima.