Lidia Poët: la prima avvocatessa italiana revocata dall’Ordine per il timore di un pericoloso precedente

Nell’opera “Lidia Poët. Vita e battaglie della prima avvocata italiana, pioniera dell’emancipazione femminile” l’autrice Cristina Ricci ci fa conoscere la prima donna che in Italia nel 1883 richiese l’iscrizione all’Albo degli Avvocati, dopo aver conseguito la laurea, il praticantato e superato l’esame abilitante.

Una richiesta che all’epoca suscitò perplessità, paura e sdegno. Un’aspirazione assurda per una donna, dato che era comune porsi domande come questa: «In questa fatica improba quale avvocatessa sarà così forte o robusta da non aver bisogno almeno di un paio di svenimenti?» (Cfr. p. 135)

Le donne potevano lavorare nei campi, essere impiegate nelle fabbriche (con orari anche superiori alle dodici ore giornaliere), partorire decine di figli (ovvero tutte attività ben più pesanti di quella d’ufficio), eppure nessuno si preoccupava degli svenimenti di una contadina, ma di quelli dell’aspirante avvocata, professione ambita e che prevedeva le più alte rette universitarie, a voler rimarcare il prestigio e l’elitarismo.

Lidia Poët (1855-1949) proveniva da una famiglia valdese benestante e colta che le permise di studiare prima ad Aubonne, in Svizzera, presso un collegio femminile e successivamente le concesse di dedicarsi allo studio approfondito del latino per accedere anche all’Università. Così nel 1871 ottenne la patente di Maestra Superiore Normale, tre anni dopo di Maestra di inglese, tedesco, francese e si iscrisse all’Università.

Nel 1877 il Corriere della Sera riportò la notizia che la signorina Poët si sarebbe iscritta all’Università (Cfr. p. 25). Lidia scelse Medicina e successivamente si trasferì a Giurisprudenza (forse questo cambio era stato influenzato dall’ambiente: infatti, il Direttore di Medicina era Cesare Lombroso, tutto tranne che ben disposto nei confronti delle studentesse). La scelta di Giurisprudenza, la più costosa quanto a rette, fu determinata dai suggerimenti della famiglia. Sempre in una intervista al Corriere, questa volta nel 1883, Lidia affermò: «io avrei vivamente desiderato di laurearmi o in belle lettere o in medicina, sapendo che già vi erano degli antecedenti, ma la mia cara sorella …» (cfr. p. 26).  La sorella e la famiglia pensavano che laureandosi in Giurisprudenza avrebbe potuto aiutare il fratello avvocato e sostituirsi a lui nello studio.

Laureata e acclamata dai colleghi di studio che la festeggiarono, Lidia si dedicò al praticantato e superò l’esame e richiese quindi l’iscrizione all’Ordine degli Avvocati di Torino. Il 9 agosto 1883 fu la prima donna iscritta all’Ordine, iscrizione revocata dalla Corte d’Appello di Torino su segnalazione del Procuratore Generale del re.

La revoca dell’iscrizione aprì una discussione sui giornali e persino in Parlamento.

L’ex Ministro dell’Interno Avv. Desiderato Chiaves affermò che «ammettere le donne all’avvocatura era ridicolo e non opportuno». (Cfr. p. 40)

Per il già citato Procuratore Generale del re «la donna non fu mai per volgere di secoli ammessa in queste contrade ad arringare davanti i Tribunali» (Cfr. p. 42). Affermava tutto ciò non supportato da leggi o dalla loro interpretazione, ma basandosi sulla storia, sull’abitudine, sulle consuetudini e su ciò che oggi potremmo descrivere come il vantaggio di pochi a scapito dell’interesse di molti. Egli, nonostante riconoscesse lo sviluppo delle arti femminile in altri campi, affermava che in questo ambito la donna non era progredita e per questo non poteva accedervi: «Ma la donna non è proceduta di pari passo nella scienza del diritto; molto meno si è potuta mostrare nell’arringa del Foro, salvo la debita gloria alle Amasie ed alle Ortensie sulla palestra romana, loro poscia interdetta». (Cfr. p. 45).

E sempre il Procuratore Vincenzo Calenda di Tavani, dopo il ricorso di Lidia, affermò: «Fino a quando l’organica struttura sarà qual essa fu sempre e le idee di pudore e morale, come forano intese, reggeranno il mondo, non ci sarà chi da senno dica che la milizia togata sia ufficio di donna; o dovrà dirsi che tale sia pur la milizia armata. Auguro all’Italia che non abbia mai a sentir il bisogno né delle donne soldato né delle donne avvocate». (Cfr. p. 50)

Anche i peggiori detrattori riconobbero a Lidia capacità e preparazione, ma non si poteva sovvertire l’ordine morale e mettere a repentaglio la famiglia. E poi, come molti sostenevano, non erano le leggi a sancire l’ineguaglianza. La donna era ineguale per natura, non per legge. Ineguale significava solo inferiore e a tale supporto si citavano le idee della Chiesa dell’epoca. (Cfr. p. 68)

Lidia non poté iscriversi all’Albo fino al 1919, però lavorò nello studio del fratello, partecipò ai Congressi Internazionali Penitenziari per trent’anni di lavori ricoprendo ruoli di segretaria, relatrice e vicepresidente. (Cfr.p. 77). Nel 1895 al Congresso Internazionale Penitenziario di Parigi ricevette dal Presidente della Repubblica francese l’”Official de Accademie” per i suoi meriti. (Cfr. p. 82).

Forse (ma non è confermata da fonti ufficiali) ricevette la Medaglia d’Argento dalla Croce Rossa per il suo impegno durante la I guerra Mondiale (Cfr. p. 124), mentre si è certi che partecipò a molte iniziative, compresi i Congressi della Pace, fece beneficienza, donazioni perlopiù in maniera anonima; collaborò con riviste femminili, tenne conferenze e intrattenne amicizie con diversi intellettuali (Cfr. p. 130).

Come altre donne aiutò la causa femminile e quindi umanitaria, per cambiare quel clima che considerava la donna non come una persona con dei diritti e delle aspirazioni, ma solo come una pedina, un tassello di un mosaico, che non doveva avere ambizioni e desideri.

Lidia Poët spese tutta la sua vita per il Diritto e la Giustizia, senza il titolo ufficiale di “Avvocato”, mettendosi al servizio dell’umanità e diventando la più nobile rappresentante della categoria, oggi riconosciuta come un modello.