Virginia Angiola Borrino: una pediatra agli inizi del ‘900

La piemontese Virginia Angiola Borrino (1880 -1965) ebbe l’opportunità di studiare Medicina grazie all’appoggio dello zio che l’aiutò dopo la morte del padre. Senza il sostegno economico e personale dello zio, a cui si aggiunsero, nel tempo, fondamentali borse di studio, la giovane non avrebbe mai potuto avvicinarsi a questi studi, sia per l’epoca che per le modeste condizioni economiche.

Per Virginia non fu sempre facile. Spesso la giovane donna si scontrò con l’ignoranza dell’epoca: ad esempio, parlando delle lezioni teoriche di ginecologia disse che “non educavano affatto al rispetto della sofferenza e della miseria fisica, di cui l’amore e la nascita sono avvolte”. (Cfr. p. 30) A tal proposito la giovane non tardò a protestare quando venivano usate espressioni poco riguardose.

Il forte carattere e l’etica di Virginia le crearono problemi durante il tirocinio universitario in pediatria dove vide, e condannò le modalità con cui venivano tenuti i neonati orfani che venivano adagiati in “tante cassettine disposte di seguito su un alto grosso cassone, come per la pasta alimentare, e che l’ultima allieva ostetrica o la più vecchia e stanca vegliava e curava”. (cfr. p. 30) Ovvero pratiche che a causa dell’ignoranza della sorvegliante provocavano la diffusione delle infezioni da neonato a neonato, causandone la morte. (cfr. p. 31)

Borrino non accettava passivamente le sbagliate e nefaste consuetudini, ma il sistema nell’istituto di maternità veniva giustificato con il fatto che “i piccoli, appena battezzati, dovevano subito, a due-tre per volta chiusi in una vecchia carrozza, essere portati al brefotrofio, al loro oscuro destino di abbandono, di solitudine, di frequenti malattie, di morte frequentissima”. (Cfr. p. 32)

Questa scuola di orrori funse da stimolo e interesse al miglioramento della cura del bambino e così decise di specializzarsi in pediatria.

Diversi luminari apprezzarono Virginia, tra questi il celebre prof. Adalberto Czerny che ne riconobbe i meriti e le capacità.

La giovane donna studiò sempre tantissimo, perlopiù sottopagata. Si dovette frequentemente scontrare con la diffidenza e l’inimicizia dei colleghi perché era solita cercare soluzioni e protestare se vedeva qualcosa che non andava. (Cfr. p. 44) Non temendo rimproveri e insoddisfazione dei medici più anziani, Virginia si ribellava sempre, ad esempio contro le insistenti iniezioni di caffeina che, all’epoca, si facevano ai bambini morenti. (Cfr. p. 44) A causa di ciò il primario la ritenne indisciplinata e non la riconfermò.

Anche i medici generici per lungo tempo si rifiutarono di chiedere un consulto pediatrico alla dottoressa, solo perché donna, arrivando persino a preferire abbandonare il bambino malato piuttosto che chiederle una consulenza. (Cfr. p. 49)

Le parole di Virginia chiariscono quale fosse l’impegno totalizzante della dottoressa: “Così, consumando il mattino nella clinica pediatrica ed il pomeriggio nel laboratorio di fisiologia, riservando le ore intorno ai pasti ai pochi clienti paganti e molte sere della settimana alle lezioni di economia domestica e di igiene per le operaie od ai corsi dell’Università popolare, giunsi nel 1913 alla libera docenza di clinica pediatrica”. (Cfr. p. 49)

Le attività, durante la sua carriera, furono molteplici. Ad esempio durante le estati dal 1912 al 1918, si occupò in Calabria, della campagna antimalarica, interrompendo il lavoro nel laboratorio e nella clinica privata. Durante l’epidemia di spagnola si occupò di molti infermi. (Cfr. p. 57)

La sua attenzione non si limitava nemmeno al lavoro di medico, ricercatrice, formatrice, benefattrice! Studiò anche gli aspetti sociali ed economici della Sila, segnalando la situazione e richiedendo degli interventi e miglioramenti (che tarderanno decenni).

A Siena si occupò della clinica pediatrica, in una struttura in pessime condizioni. In questo periodo fu testimone e subì una lunga serie di ingiustizie e intrighi del sistema universitario. (Cfr. p. 69) Nel 1924, una legge per gli studi superiori indisse nuovi concorsi ma, l’articolo 169 prevedeva una eccezione e la escluse ingiustamente. La dottoressa si presentò dal Ministro dell’Istruzione Gentile, il quale l’aveva già lodata “per una maternità sociale, felicemente unita alla scienza” (Cfr. p. 71).

Gentile si sorprese dell’esistenza di quell’articolo di eccezione del regolamento che ingiustamente aveva penalizzato Virginia. Allora si propose di aiutarla, grazie ad un altro articolo che prevedeva un’altra eccezione (art. 17), ma la dottoressa rispose a Gentile: “Impossibile, Eccellenza! Io non sono elemento di eccezione, la mia preparazione scientifica e il mio lavoro onesto e coscienzioso debbono affrontare i concorsi regolari” e Gentile, in piedi: “Ma lei è un carabiniere piemontese! Lodo la sua bella fierezza, forse ha ragione e le auguro la migliore riuscita in un prossimo concorso”. (Cfr. p. 76)

Ottenere una cattedra universitaria non fu facile: nel 1925 finì seconda ad un concorso ma poi la spostarono, a causa di pressioni di un professore, al terzo posto. (Cfr. p. 84). Finalmente nel 1927, ottenne la cattedra a Sassari. (Cfr. p. 87)

Nella vita di Angiola non mancarono nemmeno le minacce, visto che il posto universitario era ambito e lei non era tesserata. Come minaccia le inviarono cunei di marmo e proiettili. (Cfr. p. 97)

Nel 1931 ottenne un incarico a Perugia, il più modesto posto disponibile, in una clinica misera. Nonostante ciò le riuscì, nel 1932, di organizzare un convegno della Società Italiana di pediatria, sempre a Perugia.

Nel mentre scriveva libri per i futuri medici così da mettere a disposizione esperienza, cuore, studi di laboratorio. (Cfr. p. 110)

Gli aspetti sociali, oltre che medici furono sempre al centro della sua attenzione. Nel 1935 la prefettura di Perugia la invitò a organizzare un asilo nido per i figli delle carcerate. (Cfr. p. 121) In questa occasione fece degli studi e propose di far lavorare queste donne, perlopiù di famiglia contadina. In una colonia agricola femminile. (Cfr. p. 124). Ma la relazione, che doveva essere presentata nel 1938 in un Congresso internazionale fu messa da parte. La professoressa non era disposta a mentire per far fare bela figura all’Italia. Le vietarono la pubblicazione con la minaccia del confino. (Cfr. p. 124). Relazione che poté pubblicare solo nel 1947.

La dottoressa Borrino dedicò tutta la vita agli altri, privandosi del tempo personale per salvare vite umane, formare nuovi dottori, combattere l’ignoranza e il clientelarismo. Una persona da ricordare per le capacità scientifiche, le innumerevoli pubblicazioni scientifiche, la filantropia, l’impegno civile, umanitario, il coraggio e l’onestà.