Pensando al luogo più adatto dove venire al mondo ci immaginiamo mediamente un ospedale moderno e attrezzato, ovvero una struttura che offre benessere ed alti livelli di sviluppo tecnologico.
Tuttavia, il progresso nell’ambito sanitario è coinciso anche con la perdita di molte prassi positive, nonché di benessere e di saperi. Questi aspetti vengono trattati dalla scrittrice Barbara Vuano nella sua opera “Nascere nella cenere. Le testimonianze delle ultime ostetriche condotte in Carnia”.
In questo elaborato Vuano valorizza la sua esperienza di madre e professionista nell’ambito sanitario, e riesce ad instaurare un dialogo profondo con le sue intervistate, ovvero ostetriche condotte e partorienti fra la fine degli anni ’40 e gli anni ’70.
Le donne da lei conosciute erano ostetriche condotte che operavano con uno sguardo olistico, mai circoscritto al solo ventre della donna (Cfr. p.15); erano persone che prestavano attenzione non solo al parto ma anche alla fase successiva e quindi alla madre e al bambino, con un approccio radicalmente opposto alla visione asettica e totalmente medicalizzata degli anni ’80.
Come ci ricorda l’autrice, si incominciò una sorta di “medicalizzazione” del parto già dal XVIII sec. affidandolo a tecnici maschi e “rubando” il sapere alle levatrici, per arrivare poi agli anni ’80 con il completo smantellamento dei saperi delle ostetriche condotte.
Si è quindi giunti ad un sistema caratterizzato da una certa sicurezza medica (che prevede interventi anche quando non necessari), che costringe a letto donne sane e che non considera la felicità, la salute mentale e il benessere della donna, tanto che spesso si è parlato di violenza ostetrica come un grave fenomeno riconosciuto peraltro a livello legislativo da diverse Stati. (Cfr. p. 18)
E nonostante i progressi e la maggiore sensibilità registrata in questi ultimi decenni, siamo ancora distanti dal recuperare i saperi fondamentali, non solo per il benessere fisico ma anche per quello psichico della donna e del bambino. L’anestesia epidurale, la possibilità di partorire in acqua, il minor ricorso al cesareo sono solo delle conquiste parziali se consideriamo lo svilimento del ruolo dell’ostetrica e la poca attenzione alle necessità e ai tempi delle madri e dei bambini.
Problemi noti da sempre e che l’intellettuale femminista Beatrice Hastings in “Woman’s worst enemy woman” riscontrava già agli inizi del ‘900. Beatrice era una femminista molto contestata per le sue convinzioni radicali e si scagliava contro la perdita dei saperi femminili legati all’ostetricia e contro la scelta di far seguire il parto da medici maschi. “Anche al giorno d’oggi la maggior parte delle madri rifiuta l’assistenza di medici donne, ma allo stesso tempo sa quanto sia inutile cercare di spiegare i propri sintomi agli uomini. Che follia questo disprezzo e questa sfiducia nei confronti delle sue levatrici naturali!” (Cfr. Hastings p. 61)
Hastings spingeva per una maternità consapevole, una maternità scelta e vissuta non come “obbligo” o costume. Era a favore di controlli medici e di assistenza offerta possibilmente da medici donne che avrebbero capito meglio le esigenze delle partorienti. Medici che sarebbero stati più vicini e attenti alle partorienti e avrebbero impedito la perdita dei saperi tradizionali, una perdita che ha avuto inizio nell’Inghilterra di fine ‘800 e inizio ‘900.
Ma parlando della regione Carnia, ovvero un’area montuosa disagiata e fino a poco tempo fa anche molto povera, sappiamo che anche quando nel 1962 il parto ospedaliero divenne gratis per tutte le donne, per alcuni anni si continuò a partorire in casa. La particolare area geografica e questa prassi dei parti casalinghi ha permesso all’autrice di riportare le testimonianze dirette di ostetriche nate dagli anni ’20 in poi: donne che lavoravano autonomamente nelle case e anche in ospedale. La Carnia costituisce una realtà interessante perché fino al 1978, nell’Ospedale di Tolmezzo, non era ancora presente un reparto di ostetricia e le ostetriche erano pertanto autonome. Il medico veniva chiamato solo per casi gravi. Dal 1978 in poi le cose cambiarono radicalmente, cosa che permise all’autrice di far emergere la differenza fra un prima – in cui l’ostetrica era autonoma – e un dopo – in cui il medico era il protagonista e l’ostetrica si limitava ad offrire assistenza.
Si è passati quindi da una politica attenta ai bisogni personali della donna ad una che, per ragioni di sicurezza, obbligava la partoriente a rimanere immobile a letto.
Le ostetriche che lavoravano in montagna e nei luoghi più inaccessibili dovettero gestire parti podalici, emorragie e complicazioni varie senza ricevere aiuto da medici, ma solo da qualche altra donna pratica ed esperta. Donne che, in assenza dell’ostetrica, sapevano comunque far nascere un bambino.
Nella maggior parte dei casi queste ostetriche condotte non ricorrevano all’episiotomia, perché non era ritenuta necessaria (Cfr. p. 43).
Apprendevano dalle donne del posto e anche dalle colleghe, senza mostrarsi superbe solo perché formate in una scuola o università. Ad esempio, l’ostetrica Elena Magri ricordava che, a detta di una collega che aveva studiato in Francia, le donne orientali partorivano facilmente accovacciate. (Cfr. p. 49) o che le cosacche non erano solite partorire stese. E come testimonia l’ostetrica Gisella Florit di Lauco, negli stavoli più sperduti le donne partorivano anche accucciate nella cenere, perché la gravità aiutava l’espulsione. (Cfr. p. 54)
Tutte le ostetriche dedicavano molto tempo ad osservare e mettevano sempre in discussione se stesse e ciò che avevano imparato se ritenevano che qualcosa non fosse la scelta migliore per la partoriente e il bambino. Un esempio chiaro della flessibilità di queste intraprendenti donne ci viene dall’ostetrica Liliana Vanino di Paluzza che scandalizzò il prete facendo partorire le donne in cucina, al caldo, ovvero nell’ambiente più adatto in quella situazione. (Cfr. p. 68)
Tutte queste donne gestirono parti ad altissimo rischio, perlopiù senza riportare nemmeno un decesso in tutta la carriera lavorativa. Sapevano aiutare e seguivano la donna anche dopo la nascita del bambino, cosa che era invece più di pertinenza della famiglia e della comunità. L’ostetrica non era una figura estranea e fino al 1978, nell’ Ospedale di Tolmezzo, non lasciava la partoriente fino alla fine, anche con turni da ventiquattro ore consecutive. E lo faceva perché era giusto così, nell’ambito del sistema familiare e amichevole che era stato costruito.
Si trattava di un sistema di sostegno sociale condiviso, di solidarietà tra donne e di saperi tramandati tra donne. Un mondo smantellato per favorire la (pur comprensibile) comodità di chi assisteva al parto (scomodo assistere una persona accucciata!) e non di chi stava partorendo; un sistema che costringeva una donna sana a letto anziché consentirle di camminare – cosa che invece permettevano tutte le ostetriche; un sistema che prevedeva dei tempi imposti e non naturali od operazioni non necessarie. Tutto in nome della sicurezza e della comodità del sistema. Da un atto fisiologico ad una malattia. Da una donna protagonista a spettatrice.